Il 16 e 17 settembre scorso si è svolta a Firenze la V Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità. E' stata l'occasione per approfondire i tanti aspetti del tema: dalla scuola alla salute, dalla vita indipendente al lavoro, solo per citarne alcuni.
Le due giornate di lavori hanno concentrato l'attenzione sulla discussione del Programma biennale di azione, documento elaborato dall'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità che sarà definitivamente approvato entro fine anno e hanno dato spazio, inoltre, a una riflessione sull'attuazione, da parte del Governo, del precedente Programma e, più in generale, sullo stato delle politiche in favore delle persone con disabilità.
Quasi 2.000 i partecipanti alla conferenza, che ha riunito rappresentanti delle istituzioni di tutti i livelli di governo, operatori del settore, parti sociali e organizzazioni rappresentative delle persone con disabilità. L'obiettivo era «favorire il confronto e lo scambio di buone prassi e metodologie a favore del settore, affinché dalla conoscenza reciproca possano emergere soluzioni e servizi utili da replicare».
Prima di ogni altra cosa bisognava porsi una serie di domande a cui tanti disabili auspicano risposte concrete e, purtroppo, Firenze penso sia stata una occasione persa.
Avere opportunità di lavoro, vivere in autonomia, poter farsi una famiglia: questo significa progettare il futuro per una persona disabile. Ma in Italia avviene proprio questo?
Come è realizzato il Progetto di vita? A che punto è l'integrazione scolastica, sociale e lavorativa per i disabili?
Firenze, per noi di ANMIC, era la occasione per evidenziare lo stato attuale dell'integrazione nel nostro paese, mettendo in risalto i diversi problemi ancora presenti e sollecitando una loro urgente risoluzione, così da eliminare ogni discriminazione e garantire a tutti gli stessi diritti.
Certo, in un mondo globalmente in difficoltà soprattutto a livello economico, in un presente in crisi a causa di tanti cambiamenti radicali, queste possibilità cominciano a essere difficili da raggiungere per chiunque. Ma resta il fatto che per gli individui disabili tali difficoltà hanno coinciso spesso con la negazione di alcuni diritti fondamentali, con la discriminazione. E oggi, in Italia, purtroppo il problema non è completamente risolto.
Perché tali principi ancora faticano ad essere attuati concretamente. Tanto che l'ONU ha voluto redigere un'apposita Convenzione per difendere i diritti delle persone con disabilità (Nazione Unite, 2007), documento che l'Italia ha approvato ufficialmente.
Nel nostro paese la scuola rappresenta il più importante momento di inclusione per un soggetto disabile, un'inclusione garantita dalla legge e messa in atto già da molti anni. L'esperienza in questo settore è sotto molti punti di vista un'eccellenza nel nostro paese. Tuttavia oggi le risorse dedicate alle attività di sostegno e all'integrazione sembrano purtroppo essere sempre più insufficienti. Lo dimostrano molte notizie che quotidianamente balzano agli onori della cronaca, riguardanti la mancanza di insegnanti di sostegno, l'assenza del trasporto scolastico, l'insufficienza di risorse adeguate. Tanti problemi che impediscono di fatto a molti disabili di andare a scuola.
L' inclusione lavorativa delle persone con disabilità è inoltre sempre un argomento spinoso. Non solo per il momento di crisi, ma anche per le problematiche che il soggetto può incontrare nel corso del processo di avvicinamento ed entrata nel mondo del lavoro.
Parallelamente, l'essere occupati rappresenta una realizzazione individuale importantissima, tanto più in alcuni casi di disabilità intellettive.
La crisi sta peggiorando la situazione. «La crisi non colpisce tutti nello stesso modo, ma colpisce in modo particolare le persone che possono essere più facilmente messe ai margini e i disabili sono sicuramente più esposti». Tutti gli studi dimostrano un forte legame tra le condizioni del mercato del lavoro e le condizioni delle persone disabili.
Ecco perché, «bisogna accendere dei fari su marginalità e crisi per evitare che il nostro Paese, che pure ha una legislazione avanzata e ha precorso, in certi i casi, i tempi, faccia dei tragici passi indietro». La crisi poi si unisce alla discriminazione.
Proprio nei momenti di difficoltà economica come quelli che stiamo attraversando si impone una particolare attenzione alla condizione e ai diritti delle persone con disabilità, così da evitare che il disagio sociale si traduca in emergenza, come purtroppo in troppi casi sta avvenendo».
Il "dopo di noi". In molti si sono dedicati a questa nuova legge, approvata da qualche mese in via definitiva alla Camera dei Deputati. Il "dopo di noi" ha rappresentato da sempre, dai lontani anni '80, un tema centrale nella vita delle persone disabili e delle loro famiglie.
Era l'occasione, questa, per modificare l'approccio al grave problema che quotidianamente migliaia di famiglie sono costrette a sopportare ed anche questa volta penso che si sia persa una buona occasione.
I commenti e le valutazioni hanno messo in evidenza punti di vista diversi: alcuni la esaltano segnalando prevalentemente gli elementi positivi e in particolare l'istituzione del fondo. Altri la criticano, perché sembra non andare compiutamente nella direzione utile alla vita delle persone disabili, al loro benessere. Per altri ancora si tratta prevalentemente di un'operazione economica e finanziaria a favore di interessi già presenti sul territorio nazionale.
Ed eco prospettarsi quello che è un nodo critico della legge: per costruire una vera inclusione, e il dopo di noi, si deve lavorare sul "durante noi": ovvero attuare una serie di iniziative che portino alla massimizzazione dell'autonomia delle persone con disabilità. Per esempio, avviando al lavoro, dove si può, o comunque favorendo il più possibile le attività di inclusione sociale. E' vero che questa legge deve regolamentare i casi specifici delle persone che non hanno più alcun sostegno familiare («Assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare», recita il titolo). Ma è altrettanto vero che si è persa un'occasione per porre le basi per una vera inclusione, anche partendo dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
L'altra criticità riguarda il veicolo scelto dal legislatore per la gestione del dopo di noi: il Trust, ovvero un istituto giuridico con cui una o più persone (i disponenti) trasferiscono beni e diritti sotto la disponibilità del trustee (un tutore) che assume l'obbligo di amministrarli nell'interesse di un beneficiario (in questo caso la persona con disabilità). Si tratta di una formula anglosassone ratificata dall'Italia: chi vuole attuarlo deve scegliere con quale normativa straniera questo meccanismo deve operare. Una scelta costosa che potrebbe essere utilizzato solo da circa il 5% dei possibili interessati dalla legge: occorre avere dei beni da destinare all'erede e una somma di denaro considerevole per mantenere la persona con disabilità fino alla sua morte, oltre che per pagare i costi del Trustee.
Gli entusiasti della legge ritengono, invece, che «il Trust non è l'unico mezzo per attuare la legge; ed inoltre affermano che «chi non potesse aderire a questa formula può sempre far riferimento ad altri fondi messi a disposizione dello Stato per il mantenimento di queste persone con disabilità gravi». Un po' poco a mio giudizio per una legge nata per dar sollievo a tutti i genitori con figli con disabilità grave.
Quante famiglie, dove spesso lavora un solo genitore perché l'altro si prende cura del figlio - oltre 3,3 milioni di persone sono coinvolte in Italia nell'assistenza a una persona con disabilità (dati Cesvot) - potranno lasciare in eredità all'eventuale trust beni e denaro sufficienti per il mantenimento dei loro cari? Vero è che la dotazione del fondo è costituita da «soldi nuovi», ovvero non spostati da altre voci di spesa per il mondo della disabilità; ed è altresì vero che si tratta di un primo mattone sul quale in futuro si potrebbero costruire nuove impalcature per gestire la situazione del dopo di noi.
Ma mi sarei aspettato un minor equilibrismo tra le differenti anime promotrici e una risposta più essenziale e concreta, che coinvolgesse una platea più ampia di destinatari.
Poiché tutti sanno sempre in cosa sbagliano gli altri e mai nessuno cominci con quanto si può fare, vale la pena domandarsi: cosa c'è davvero da fare, quali sono le priorità non di un partito ma della nazione e del suo popolo.
Ecco perché è indispensabile fare una profonda riflessione che metta in discussione ognuno di noi e chiedersi: "quali strumenti adoperare e quali priorità darsi, nel tempo della crisi, per continuare a sostenere e promuovere i diritti delle persone con disabilità?". Ritengo, infatti, che la crisi che colpisce tutti i cittadini, ma in particolare alcune fasce della popolazione, stia ponendo anche le Associazioni delle persone con disabilità di fronte a nuovi interrogativi e a nuove sfide, che a loro volta porteranno a significativi cambiamenti. Credo che le situazioni che, giorno dopo giorno, le persone si trovano ad affrontare - spesso legate alla difficoltà di far fronte alle esigenze della vita quotidiana anche in relazione ad un accesso sempre più difficile ai Servizi sociali - richiedano da parte delle Organizzazioni che rappresentano le persone con disabilità un adeguamento nel modo di ciascuno di sostenersi, organizzarsi ed operare: un modo all'altezza delle nuove sfide, rendendo significative le proprie azioni con buone prassi, ma soprattutto con iniziative ed atti concreti.