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Il passaggio d’epoca che ci attraversa è uno stimolo per un serio ripensamento delle politiche che permettano ad un numero sempre maggiore di persone di stare bene e stare meglio. Le persone stanno bene quando sono nelle condizioni di poter compiere delle scelte, quando possono esercitare la propria libertà sostanziale, quando possono realizzare ciò a cui danno valore, quando possono esprimere le proprie potenzialità, quando si sentono incluse nella società, quando hanno fiducia nelle istituzioni, quando si sentono supportate in momenti di difficoltà, quando possono esprimersi con generosità.

I radicali mutamenti socio-economici in corso (invecchiamento demografico, nuovi modelli di famiglia, flessibilità del lavoro, crescita delle disuguaglianze, migrazioni, debito pubblico, ecc..) caratterizzano gli odierni sistemi di welfare per la loro insostenibilità, in particolare sotto l'aspetto economico-finanziario, e la loro inadeguatezza, per l'incapacità di dare risposte efficaci alle nuove tensioni sociali e per il ricorso ancora evidente ad un approccio di tipo assistenzialistico. Inadeguatezza e insostenibilità sono due cose tra loro connesse in un perverso circolo vizioso, perché considerare le persone in difficoltà semplici consumatori passivi di servizi significa creare dipendenza anziché benessere ed alimenta un'insostenibile rincorsa tra bisogni e costi sempre crescenti. E' necessario anzitutto adottare una nuova visione che ponga al centro la persona e la sua rete di relazioni anziché le tipologie di servizi di cui necessita, sposando una logica di inclusione e coesione  sociale. Rispetto ai più tradizionali interventi sulle emergenze sociali, sostenere la coesione sociale significa infatti valorizzare le relazioni tra i membri della società e promuovere l'assunzione collettiva di responsabilità. Implica inoltre lo sforzo congiunto per costruire strategie di lungo periodo, precisando obiettivi strategici e definendo contenuti in modo approfondito, trasparente, concreto. Più una società è coesa, maggiori sono le possibilità di contrastare gli effetti negativi dei mutamenti in corso: i programmi di coesione sociale rappresentano la condizione necessaria per lo sviluppo locale, il contesto in cui si possono concretamente ridurre i processi di esclusione.

 Il confronto con il mondo della disabilità è possibile nella vita di ciascuno di noi, non solo per coloro che già si occupano di persone diversamente abili per motivi professionali, nelle attività di volontariato o perché direttamente coinvolti in impegnative e spesso dolorose esperienze personali o familiari, ma anche per i cosiddetti “abili”. La storia stessa dell’esistenza porta, nella maggior parte dei casi, a condizioni di svantaggio.

Dalla scomposizione letterale del termine disabilità ci si rende conto di essere di fronte ad una situazione di limitazione, nel senso di “mancanza di qualcosa” che viene messo in risalto con il suffisso “dis”, ma allo stesso tempo abile e cioè capace in e capace di…Entrano in gioco, quindi, le abilità e le capacità che ogni essere umano possiede, indipendentemente dalla sua specificità e particolarità. Non bisogna perdere di vista il fatto che, ogni essere umano, porta con se un suo “mondo”, con all’interno vissuti personali, stile di vita, carattere, ecc; per questo motivo ognuno di noi è unico e speciale con conseguente diversità. In questo senso si può intendere la diversità come una risorsa, in termini di crescita e arricchimento personali. Solo attraverso la conoscenza e l’accettazione incondizionata dell’altro, come presupposto dell’etica della gioia, esiste confronto e riflessione. Molti di noi considerano l’identità di una persona diversamente abile come un tesoro che non va scoperto, ma lasciato sepolto. Questa opinione include una quasi certezza: la vita di relazioni non potrà che recare danni a una persona diversamente abile. Si potrebbe anche dire che, la qualità delle relazioni, sia determinata dalla presenza della persona disabile a priori. La paura che il confronto possa creare tensioni porta a considerare idilliaca la condizione che colloca il disabile nel limbo dell’innocenza e dell’ignoranza. Se ci rendiamo conto che l’uomo costruisce la propria identità, la sua storia, attraverso il rapporto con l’altro e che gli esseri umani riescano a “coesistere a condizioni di riconoscersi tutti uomini ma in modo diverso”, non possiamo non ribadire che, la cultura della “cancellazione” della diversità, è una cultura dell’esclusione, del pietismo, che discrimina fino a segregare la persona con diverse abilità. Nel corso degli anni, certo, dei passi in avanti sono stati fatti, a partire dalla trasformazione della parola handicap, che dava l’idea di menomazione, impedimento, in “diversamente abile” che, in un certo senso, potrebbe andare nella direzione di persona capace di dare e trasmettere qualcosa alla società e agli altri, anche se quel “diversamente” appare sempre una discriminante. Ma ciò sarebbe di poco conto se l’emancipazione del disabile verso una normale integrazione nella società avvenisse nel quotidiano, nei normali rapporti di relazione tra persone. Purtroppo, ancora, siamo lontani dall’imparare a vedere l’handicap come risorsa e non come sofferenza; solo ultimamente molte famiglie, davanti a una situazione difficile, si rimboccano le maniche e riescono a gioire dei passi fatti e dei traguardi raggiunti. L’obiettivo vincente sarebbe quello di riuscire a eliminare tutti quegli svantaggi che la struttura e l’organizzazione della società pone davanti alla disabilità, in maniera da passare dalla cultura dell’handicap a quella della normalità, ovverosia che afferma la diversità di ogni essere umano come condizione normale, quindi risorsa positiva, patrimonio di cultura, capacità, attitudini, vitalità. Dal principio di non discriminazione sancito dal trattato di Amsterdam (art. 13) può e deve derivare una politica attenta a valorizzare, nel concreto, la disabilità come risorsa umana, morale, sociale, economica, culturale. Alla giusta e doverosa tutela dei diritti (primo fra tutti il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione), si deve affiancare un concreto pacchetto di iniziative volte a garantire la libertà di vivere come tutti. Questa difficoltà di fare “il salto di qualità” è più marcato al meridione e, secondo le mie constatazioni, soprattutto fra le persone che si possono considerare mature, anagraficamente, ma non nell’approccio con questo “mondo”. Certo, non è mia intenzione generalizzare, perché sono convinta che la cultura di un popolo progredisce in base all’aggiornamento e allo sviluppo mentale, derivante dal più alto tasso di preparazione scolastica e di esperienza di comunicazione con gli altri. Ritengo, però, che siamo ancora molto lontani dall’orientare la nostra mente verso la visuale del mondo disabile come risorsa e dal porre le condizioni affinché vengano predisposte specifiche campagne di comunicazione, per promuovere una nuova immagine del mondo della disabilità; disabilità come risorsa, solidarietà, partecipazione, pari opportunità, non discriminazione. Mi piace menzionare una pensiero di Antonio Guidi, ex ministro della famiglia e della solidarietà sociale, che descrive su se stesso il concetto di disabilità intesa come risorsa: "Ho sempre considerato la mia disabilità come una risorsa, in quanto mi ha portato a dovermi misurare con i miei limiti e le mie potenzialità. Di fronte a qualsiasi azione quotidiana, dalla più banale come salire un gradino o giocare una partita di pallone, alla più grande come aprirmi all’amore, forse più degli altri mi sono dovuto domandare: ce la potrò fare? Questo costante interrogativo mi ha portato ad implementare le mie capacità. Non potendo camminare velocemente ho avuto la possibilità di soffermarmi con più attenzione su tante cose, e poi ho potuto assaporare il piacere della conquista, che non ho mai perso, sia in ambito professionale che soprattutto in quello sentimentale. Insisto sui sentimenti perché penso che d’amore si viva". Le persone con disabilità possono diventare soggetti socialmente attivi e dobbiamo dar loro la possibilità di diventarlo. Il dovere di tutti noi è quello di farci carico della loro stessa volontà e di assumerla socialmente, politicamente, eliminando qualsiasi ostacolo psicologico, giuridico, fisico che tenda a isolarla, abbattendo il pregiudizio, la negligenza che nasconde, umilia ed oltraggia. E’ imprescindibile che si abbandoni l’idea dell’assistenzialismo e si guardi alle persone diversamente abili in maniera attiva, senza pietismo, ma come risorse positive della comunità. Non dovrebbe mai mancare il rispetto e l’attenzione verso chi, da una posizione differente e svantaggiata, ci dimostra di essere in grado di insegnarci volontà e forza vitale. Il valore della disabilità vista come risorsa e non come limite della società sarà un nuovo impegno per l’associazione “Roccella in movimento” e per Chiara che, insieme a tutte le persone che si vorranno unire, cercheranno di diffondere e promuovere una reale integrazione delle persone disabili nella nostra società, consapevoli che, solo così, sarà possibile una maggiore crescita per i singoli e tutta la comunità.