Senza dubbio le specifiche misure previste dal legislatore per garantire ai soggetti diversamente abili la partecipazione ai concorsi rappresentano la declinazione in chiave sostanziale del principio di eguaglianza (art. 3 Cost., da leggere oggi anche alla luce dell’art. 21 dellaCarta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) nell’accesso ai pubblici uffici, espressamente previsto dall’art. 51, co. 1, Cost., da leggere in ideale collegamento con il principio del pubblico concorso di cui agli artt. 97, co. 3, Cost. e all’art. 106, co. 1, Cost.

Purtroppo però, nel nostro Paese tra una legge e la sua applicazione corre tanta strada ed anche questo caso non fa eccezione.

Già all’inizio degli anni 2000 l’Anmic patrocinò il caso di una giovane architetta, affetta da tetra paresi spastica, che non potè partecipare al concorso pubblico per l’abilitazione all’insegnamento perché il Ministero non le aveva messo a disposizione in tempo utile ausili informatici e tempi aggiuntivi.

Il Tribunale di Pisa condannò il Ministero al risarcimento dei danni, ma l’architetta restò esclusa dall’accesso ai ruoli degli insegnanti.

Molti anni sono passati, ma anche in tempi più recenti la Pubblica Amministrazione ha mostrato di avere ben pochi riguardi per le persone con disabilità.

E’ di un paio di anni fa il caso di  un candidato al concorso per l’accesso alla carriera dei magistrati ordinari affetto da grave disabilità - che lo costringeva a sottoporsi a trattamento emodialitico trisettimanale a giorni alterni con sessioni della durata di cinque ore – che aveva presentato istanza al Ministero di giustizia al fine di ottenere lo svolgimento delle prove scritte in giorni non consecutivi.

Rigettata l’istanza, il Ministero con d.m. 7 marzo 2014 fissava il calendario d’esame in tre giorni consecutivi.

Il candidato provvedeva, pertanto, ad impugnare dinnanzi al Tar Lazio il decreto ministeriale de quo e ne richiedeva la sospensione in sede cautelare.

Con ordinanza collegiale n. 2563 del 2014, il giudice capitolino, in accoglimento dell’istanza del ricorrente, disponeva la sospensione.

Secondo il giudice capitolino, infatti, la domanda del ricorrente di articolazione dello svolgimento delle prove scritte in tre giorni non consecutivi non poteva ritenersi in contrasto con nessuna disposizione precettiva di legge. Il r.d. 1860/1925 (e successive modificazioni e integrazioni) non impone, infatti, che le prove scritte si svolgano in tre giorni consecutivi.

Ma soprattutto le ragioni giustificatrici addotte dall’Amministrazione a fondamento della scelta predetta, connesse a profili di spesa o di organizzazione del lavoro degli addetti alla procedura concorsuale (spese di affitto dei locali, attività di custodia del materiale delle prove ecc.), andavano considerate recessive rispetto alla primaria esigenza di garanzia della possibilità di accesso del ricorrente alle prove in parità di condizioni con gli altri concorrenti.

A tre giorni di distanza, su ricorso del Ministero e sempre in sede cautelare, con decreto presidenziale emesso ai sensi dell’art. 56 c.p.a., la quarta sezione del Consiglio di Stato provvedeva a riformare l’ordinanza del Tar Lazio, ritenendo che l’amministrazione aveva pienamente rispettato il dettato dell’art. 16, concedendo al candidato tempi aggiuntivi e che la richiesta del candidato era stata eccessivarispetto alla situazione sanitaria esistente, in quanto il trattamento necessario era agevolmente affrontabile, mediante il ricorso alle strutture sanitarie esistenti in Roma che, tra l’altro, operavano anche in orari serali del tutto compatibili con lo svolgimento delle prove in esame.

Onestamente una  decisione di tal fatta lascia interdetti.

Ed infatti la Corte Europea, di fronte alle numerose sentenze di questo tipo e ai molteplici casi di discriminazione sollevati dai candidati disabili ai pubblici concorsi, dopo una lunga disamina della legislazione italiana, ha statuito che :

         "Emerge da quanto precede che la legislazione italiana, anche se valutata nel suo complesso, non impone all’insieme dei datori di lavoro l’obbligo di adottare, ove ve ne sia necessità, provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, al fine di consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. Pertanto, essa non assicura una trasposizione corretta e completa dell’articolo 5 della direttiva 2000/78.

 Di conseguenza, occorre dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78.  E per questo è stata condannata alle spese".

Sarà stato un monito efficace? Non resta che aspettare e vedere

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